La lunga storia degli oliveti toscani

L’aspetto di certe colline toscane fittamente coperte di olivi è, contro una certa diffusa opinione, un paesaggio abbastanza recente e non risale, nellanella maggior parte dei casi, più indietro della seconda metà dell’Ottocento.
Non soltanto l’olivo vide allora infittire la sua presenza in molte aree che l’avevano magari conosciuto precedentemente in piantagione più rada, ma si diffuse anche in aree nuove e di recente bonificate, come la Maremma o la Valdichiana.
Gli stessi consumi alimentari dei grassi – per quel tanto che ne sappiamo – mettono in rilievo l’importanza che per i ceti popolari, e più particolarmente per i contadini, continuarono ad avere nel corso dei secoli il lardo o lo strutto di maiale e, viceversa, il carattere “urbano”, in certa misura “di lusso” dell’olio di oliva.
Soltanto dopo il XV secolo pare cominci, del resto, anche una certa esportazione a distanza ed economicamente significativa dell’olio toscano – già allora particolarmente apprezzato – a giudicare almeno dai prezzi, mentre prima del toscano avevano cominciato a viaggiare gli oli liguri e marchigiani e, soprattutto, gli oli della Campania e della Puglia.
In queste ultime due regioni, già almeno dalla prima metà del Trecento, si rifornivano anche i mercanti fiorentini, per impiegare l’olio nella fabbricazione del sapone e nella preparazione delle lane per la produzione di stoffe. La olivicoltura toscana, per quanto la qualità selvatica della pianta sembri attestata già in età preistorica in certe zone del litorale, costituisce dunque una lenta conquista dell’operosità umana, certamente più lenta e più difficile di quella impiegata per la diffusione della vite, anche in conseguenza di una più ridotta capacità di adattamento climatico e altimetrico, oltre che per una maggiore difficoltà economica d’investimento, essendo l’olivo pianta che comincia a remunerare il coltivatore soltanto dopo molti anni dall’impianto.
In Italia i primi olivi coltivati pare si avessero in Sicilia e nella Magna Grecia, su probabile impulso dei coloni greci (è fatto degno di nota che il vocabolario latino ed etrusco dell’olivo e dell’olio sia quasi interamente di origine greca).
Nell’Etruria, che più direttamente ci interessa, la produzione di olio è attestata almeno dalla metà del VII secolo a.C., ma pare che la coltivazione dell’olivo non vi avesse un grande rilievo, mentre molto importante era l’allevamento dei porci. Tutto da studiare resta invece un possibile e, in certa misura, probabile, successivo rafforzamento della olivicoltura nel territorio corrispondente all’attuale Toscana. Certo è tuttavia che un documento toscano dei primi del IX sec. d.C., dopo che il crollo dell’impero e l’immissione di popolazioni dal nord e dall’est avevano contribuito a ridare importanza in Italia all’uso alimentare dei grassi animali (abitudini alimentari degli invasori e rafforzamento degli incolti e dell’allevamento convergevano nella stessa direzione), parla curiosamente, ma significativamente, del “tempus de laride”, del tempo del lardo, come di una delle scansioni del calendario agricolo-pastorale. Nulla del genere avrebbe potuto essere detto, con ogni probabilità, dell’olio, per nessun angolo della Toscana, neppure per la Versilia, l’entroterra livornese o la collina lucchese, che pur sono le zone per le quali più numerose risultano le segnalazioni di olivi nei contratti agrari dell’alto Medioevo.
Più frequenti, per quei secoli, sono infatti le notizie relative ad appezzamenti di terreno “con dieci”, “con cinque”, “con tre olivi”, che paiono dimostrare insieme la preziosità della pianta e la sua scarsa diffusione. Anche successivamente l’uso parsimonioso dell’olio e la convinzione della sua preziosità – significative, per questo secondo aspetto, sono le affermazioni di certi uomini d’affari cittadini o di certi governi tra Tre e Quattrocento – vanno di pari passo.
I secoli finali del Medioevo segnano tuttavia, per varie aree della regione, un primo significativo incremento dell’olivicoltura, che viene stimolata e protetta da norme diverse contenute negli statuti delle città e negli statuti delle comunità della campagna. A questo progresso, che si deve immaginare piuttosto lento, dettero un impulso decisivo – il fenomeno è stato dimostrato, attraverso l’esame di alcune centinaia di contratti agrari e lo studio di qualche proprietà, soprattutto per i territori fiorentino e senese – i proprietari urbani sui loro poderi a mezzadria (la mezzadria poderale, nei suoi connotati fondamentali, comincia ad affermarsi nel corso di quella che, approssimativamente, potremmo indicare come l’età di Dante).
L’olivo si diffuse poi, in ondate successive, nei secoli seguenti, in gran parte della regione. I proprietari fecero allora scavare fosse per l’impianto di olivi e di alberi da frutto, lunghe talvolta cento o duecento metri, con decine di piante a 8-9 metri l’una dall’altra. Si trattò tuttavia, generalmente, non di impianti di coltivazione intensiva dell’olivo, ma di una intensificazione della coltivazione promiscua, con consociazione sui medesimi appezzamenti di colture erbacee – in primissimo luogo cereali – viti, alberi da frutto e, appunto, olivi.
Forse il calo stesso della pressione demografica conseguente alle altissime mortalità determinate dalle epidemie di peste favorì, fra Tre e Quattrocento, questo processo, riducendo il bisogno di cereali e permettendo di superare con più facilità l’handicap della lenta crescita della pianta. Lenta crescita, ma non, tuttavia, in rapporto ai livelli tecnici del tempo, scarsa produttività, soprattutto se la si paragona con la produttività dei cereali, questa sì veramente bassa rispetto alla produttività attuale.
Alla metà del Quattrocento, sulle colline presso Firenze, in anni non consecutivi, si ebbero infatti rese delle olive in olio del 13-14%, di circa un terzo soltanto inferiore alla produttività media di oggi.
L’impulso dato dai proprietari alla diffusione dell’olivo derivava, oltre che dal loro desiderio di consumo, anche dalla loro volontà di commercializzazione del prodotto e continuò lungo tutta l’età moderna, spesso con conflitti tra mezzadri e padroni, per l’interesse dei primi – lo rilevava Cosimo Ridolfi alla metà de XIX secolo – a potare troppo a fondo le piante per lasciare luce al grano, che era il prodotto fondamentale per l’alimentazione contadina, e a seguire la pratica negativa di seminare cereali ai piedi degli olivi.
Nella prima metà del XV secolo l’olivo era già coltivato in misura cospicua nella Lucchesia (colline di Massarosa, Versilia bassa valle del Serchio), dove continuerà a diffondersi in età moderna, e veri e propri oliveti erano presenti sulle colline pisane. Nel pesciatino, nel terzo decennio di quel secolo, si producevano ogni anno circa 400 quintali di olio, che superando il fabbisogno locale, davano vita ad una qualche esportazione verso le città vicine.
Ma la produzione crebbe ancora nel corso dei cent’anni successivi, allargando i paesaggi agrari costituiti da soli olivi o da olivi e vite. Nella prima metà del Quattrocento l’olivo era abbastanza diffuso sulle colline intorno a Siena nella Valdelsa, meno intorno ad Arezzo Cortona, scarsamente presente nel Valdarno di sotto come in quello di sopra, praticamente assente in Maremma, salvo che in brevi fasce di territorio intorno ad alcuni castelli.
Il grande mercante pratese Francesco di Marco Datini, a cavallo fra Tre e Quattrocento, ricavava dai suo poderi, di propria parte, appena 70 chili d’olio, contro 270 quintali di grano ed altrettanti circa di vino. Perfino sulle colline a sud e a sud-est di Firenze (comuni di Scandicci, Impruneta, Bagno a Ripoli e, più lontano, in Val di Greve e Val d Pesa, zone ora contrassegnate da una sua forte presenza, l’olivo, pur segnando già il paesaggio agrario, soltanto eccezionalmente raggiungeva col valore della sua produzione il 25% della produzione
dominicale ed era meno importante della vite.
Forse soltanto Lucca, fra le città toscane, era in grado, all’inizio del Quattrocento ed in annate di buona raccolta, di esportare olio. Ma un paio di secoli dopo anche l’olio del granducato di Toscana, che non comprendeva Lucca, cominciò ad essere esportato attraverso il porto di Livorno. All’inizio del XVIII secolo, prima che la grande gelata del 1709 distruggesse una quota cospicua delle piante, la produzione del granducato aveva raggiunto i 58.000 quintali.
Le varietà più comuni della pianta nel contado fiorentino erano già allora il “frantoio”, il “moraiolo”, il “gramignolo”. L’agronomo Michelangiolo Tanaglia. che ci fornisce queste notizie e ci parla dei pregi e dei difetti delle diverse varietà di olivo, consigliava anche che l’olivo dovesse essere piantato a marzo – consiglio confermato dai documenti, che pur segnalando anche piantate autunnali, rilevano una preferenza degli agricoltori per il marzo-aprile -; passa poi a parlare della potatura, della necessità di frequenti lavorazioni, dell’innesto, delle concimazioni, da farsi in ottobre utilizzando corna di castroni e unghie di bovini, della necessità di scavare buche intorno ai pedani (l’attuale “concatura”) per trattenere umidità e “grassume”.
Nella Toscana interna la raccolta veniva effettuata tra novembre e dicembre e lo stesso Tanaglia apparteneva ai fautori di questa raccolta precoce, sostenendo che a novembre le olive hanno raggiunto il massimo di inoliazione e che un raccolto dilazionato espone, tra l’altro, il frutto ai danni di un cattivo andamento atmosferico.
Mentre per i grandi alberi della Puglia è già documentata nel tardo Medioevo la “ràcana”, cioè un panno steso sotto l’olivo a raccogliere i frutti forse fatti cadere con la bacchiatura, in Toscana la raccolta avveniva attraverso la “brucatura”.
La miniatura che illustra il mese di novembre in un calendario senese della seconda metà del Quattrocento, attribuita a Sano di Pietro, mostra due contadini – un uomo e una donna – mentre colgono le olive da due piccole piante direttamente da terra, raccogliendole in due cesti.
La produzione a pianta era piuttosto bassa, se paragonata ai grandi olivi del Mezzogiorno. All’inizio del XVIII secolo si calcolava infatti che per ottenere un barile d’olio, pari a circa 29 chilogrammi fossero necessarie in media quaranta piante di olivo. Il che voleva dire una produzione media di appena 700 grammi di olio per pianta.
La spremitura delle olive avveniva nei frantoi, “mulini da olio” mossi dalla forza idraulica, o anche in frantoi mossi dalla forza di un animale. Grandi macine di pietra frangevano le olive. All’impasto veniva talvolta aggiunta acqua calda, per meglio separare l’olio dalla sansa. Poi si passava alla spremitura in uno strettoio. Il liquido veniva raccolto in vasche e qui fatto riposare per far affiorare l’olio.
Intorno al 1830, dopo una secolare opera di diffusione, la superficie olivata raggiunse nella regione i 152.000 ettari, e le zone d’elezione della pianta continuavano ad essere quelle, ormai tradizionali, della fascia superiore tirrenica e delle colline centrali intorno al bacino dell’Arno e dei suoi affluenti.
In precedenza zona, per così dire, di passaggio tra le abitudini alimentari dell’Italia padana e quelle delle regioni meridionali, almeno dal Cinquecento e soprattutto più tardi, la Toscana poteva, a buon diritto, essere iscritta per il suo uso dell’olio al mondo mediterraneo, a stare almeno ai ricettari del tempo, che sono sfortunatamente espressione soltanto della cucina dei ceti superiori urbani. Non c’è dubbio, in ogni modo, che, sia pur con lentezza, il consumo dell’olio crebbe, nel corso dell’età moderna, anche fra i ceti popolari e contadini. Esso serviva per condire le verdure crude, per friggere, in alternativa allo strutto. Il suo consumo cresceva nei giorni di quaresima e di vigilia, quando non si poteva consumare carne e neppure friggere con grassi animali.
Un balzo notevole l’olivicoltura toscana ha infine fatto tra la prima metà dell’Ottocento e la metà del Novecento, infittendosi, la pianta, soprattutto nelle zone tradizionali, ma diffondendosi anche in altre aree dove era stata in precedenza sconosciuta o scarsamente coltivata.
Nel 1929 la superficie olivata raggiunse i 239.000 ettari, con un incremento di quasi il 58% rispetto al 1830. Alla fine degli anni sessanta le piante erano ormai 25 milioni, delle quali oltre un quarto concentrate nella provincia di Firenze. Nelle annate 1965-1972 furono prodotti mediamente ogni anno 226.000 quintali di olio, dei quali poco meno del 30% nella provincia di Firenze, e il 15% nella provincia di Grosseto, nella quale una coltivazione diffusa era fenomeno piuttosto recente: quasi il simbolo, le due cifre, delle tappe della costruzione secolare di un paesaggio economico-agrario.