Breve storia dell’ulivo e dell’olio in Italia

La fiorente attività legata al consumo e al commercio dell’olio d’oliva, con lo sgretolarsi dell’impero romano sotto i colpi delle invasioni barbariche, scompare quasi del tutto.
La perfetta organizzazione distributiva romana-con i suoi “collegi” degli importatori e la sua “arca olearia” cioè la borsa dove si trattavano le partite di olio provenienti da paesi esteri-che fino ad allora aveva soddisfatto le richieste del mercato, viene inesorabilmente soppiantata da una produzione e commercializzazione a livello di autoconsumo locale.
L’olivo tocca così in Italia una coltura e una produzione relativamente modeste. Pochi alberi per le necessità di ogni nucleo familiare contadino, e coltivazioni più estese in alcuni feudi, specie in quelli ecclesiastici.
Nell’ambito dei feudi, specie nelle zone di media collina, si costruiscono fattorie-fortilizio (per precauzioni difensive), abitate da una decina di famiglie che si dedicano alle coltivazioni del grano, della vite o dell’olivo.
Alcuni di questi villaggi sono ancora visibili in Toscana. Nella zona di Pistoia sulle pendici della Valdinievole, ad esempio, queste fattorie-fortezze sono poste lungo i corsi d’acqua dove i mulini ed i frantoi potevano sfruttare l’energia idraulica per azionare le loro macchine.
Sulla base dei contratti “ad laborandum” il contadino o i gruppi di contadini ricevono in gestione un terreno già alberato, e lo lavorano dando al proprietario la metà del raccolto, o solo un quarto fornendo però giornate lavorative gratuite nei terreni “dominici”, che il proprietario stesso cura direttamente.

Ma sono soprattutto i conventi ad avere nelle terre circostanti grandi oliveti. Da una memoria del monastero di Bobbio (Piacenza) si apprende che il reddito tratto dalla vendita di olio d’olivo serve per acquistare vestimenta e ferro.
Dal XII secolo la situazione muta, i contadini ottengono per le coltivazioni loro affidate contratti senza scadenza, “ad infinitum”, e il proprietario riceve un affitto in denaro o una quantità fissa di olio. Da una parte la continuità giova alla coltura, che ora il contadino considera in qualche modo sua, dall’altra il proprietario (che ormai non è più solo un ex-feudatario, ma anche un borghese cittadino) trova proficuo e sicuro l’investimento, e affronta volentieri l’onere di piantare nuovi oliveti per accrescere le sue rendite.
Se il fiorentino Buonaccorso Pitti, facendo un inventario degli alberi che crescono nel suo giardino, gioisce nel contare sessanta piante di olivo, ampia attenzione riscuote in tutti i paesi d’Europa il testo di scienza agraria (1300) del bolognese Pietro de Crescenzi che insegna le pratiche di coltura, potatura e allevamento con particolare riguardo per la pianta d’ulivo.
Mentre Venezia e Genova rivaleggiano per il controllo del commercio delle derrate alimentari, Firenze, che dispone di incerti sbocchi al mare, spinge al massimo la coltura dell’olio d’oliva sulle proprie terre per non dover dipendere dalle costose importazioni-nel 1347 I’arte della lana importò 7.143 orciuoli di olio di oliva per 15.956 fiorini -e, anzi, per dare vita ad una massiccia esportazione delle sue due preziose derrate verso il nord Europa: il vino e l’olio di oliva.
Per questo motivo in Toscana spesso il contratto di affitto non è stabilito con un proprietario ma con il Comune, per l’uso di terre demaniali.
Comunque, I’interesse per l’olivo e l’olio d’oliva cresce, aumenta la richiesta, e si hanno i primi esempi legislativi a favore di questa produzione. Leggiamo negli Statuti di Montepescali, in Maremma, del 1427: “Ne la bandita del Poggio qualunque persona ha possessione con ulivi, sia tenuta ogni anno porvi quattro piante d’ulivo e farvi innestare quattro alberi domestici… Chiunque, in qualsiasi posto, abbia un possesso, debba piantare, ogni anno, due ulivi e innestare due alberi domestici”.
Firenze gestisce la produzione e la commercializzazione con norme severissime: è assolutamente vietato vendere olio d’oliva senza l’apposita licenza; nessun venditore può tenere più di quattro orci di olio d’oliva così come è vietato trasportare fuori dal contado olio d’oliva senza una precisa autorizzazione.
Insomma l’olio d’oliva è un alimento così importante che finanche il governo pontificio, sul cui territorio pur abbonda la produzione, stabilisce che le eccedenze degli anni di abbondanza non siano del tutto vendute o esportate, ma immagazzinate presso monasteri, abbazie e sedi pubbliche e dà l’esempio conservando l’olio d’oliva necessario alla corte pontificia in enormi anfore sistemate nel Castello di S. Angelo a Roma.
Di fronte alla minore produzione di olio d’oliva ed alla sempre consistente richiesta del prodotto specie dei centri urbani, alcuni commercianti veneziani e genovesi, seguendo le tecniche di approvvigionamento degli “oleari” romani, danno nuovo impulso al commercio oleario. A quel che si conosce il primo è un veneziano, Vitale Voltani, che intorno al 1160 controlla totalmente il mercato dell’olio d’oliva a Corinto Tebe, Costantinopoli e diverse regioni della Romania. Da parte loro i genovesi, per primo Romano Mairano, riprendono a commerciare e importare olio di oliva dalla Provenza, dalla penisola Iberica, dall’Africa settentrionale. In breve tempo l’olio d’oliva contribuisce, e non per poco, alle fortune commerciali- della Repubblica di Venezia. Indispensabile per l’alimentazione e la produzione dei saponi, I’olio d’oliva diviene anche uno strumento di affermazione politica imponendo a tal punto anche una precisa legislazione sul prodotto.
A Venezia, alla fine del XIII secolo vennero nominati i Visdomini di Ternaria incaricati di controllare le importazioni e le esportazioni delle partite di olio d’oliva nonché della pesatura e della vendita al minuto.
I dazi fissati dalla Repubblica sommano a tre ducati per ogni mille libbre di olio d’oliva se proveniente dal Golfo (il Golfo giungeva fino alla Puglia) ed a un ducato se importato da fuori del Golfo. Infine per il carico e lo scarico era obbligatorio munirsi di un’apposita bolletta.
E tale l’importanza del commercio oleario che si costituiscono apposite società in grado di far fronte ai costi di acquisto della derrata ed all’armamento di apposite navi: da un atto notarile risulta che Pietro Marini, Rolando Ognibene e Pietro Dolze si costituiscono in società con un capitale di 20.000 ducati d’oro!
Per il trasporto dell’olio si costruiscono apposite navi, le “marciliane” leggere imbarcazioni a fondo piatto, larghe otto metri, lunghe diciotto metri, con prua bassa capaci di trasportare fino a 500 botti di olio d’oliva.
Un’annotazione, la Curia Romana, dopo la perdita alla cristianità della Siria e della Palestina nel IV secolo, protesta presso i mercanti perché terminino i commerci delle derrate alimentari con l’Egitto ed i paesi mediorientali.
L’interesse dei commercianti veneziani verso il sud della penisola è collegato alle notevoli quantità di olio d’oliva prodotto specie nell’area salentina.
Furono i monaci Basiliani che ai primi del Duecento provvidero ad impiantarvi estesissime colture di olivi. Nel libro ufficiale della città di Gallipoli è inserito un diploma del 1327 del Re Roberto d’Angiò che concede alla città l’esenzione di tutti i tributi per la macina delle olive. Nell’Archivio di Stato di Lecce sono inoltre conservate le autorizzazioni reali del 1371 per l’attracco nei porti di Gallipoli e di Brindisi di navi ragusane per il carico di olio di oliva conservato in otri di pelle di capra contro lo scarico di spezie e di tele di lino.
Di fronte alla pressante richiesta dei mercanti europei la Puglia si trasforma quasi in un grande oliveto.
Nel ’400, ad opera dei frati Cistercensi e Olivetani, le ampie zone boscose di Capo Leuca che si addentrano tra rocce brulle sono messe a coltura e per ottenere una pronta resa sono risparmiati solo gli olivastri cresciuti spontaneamente ed innestati ad olivi.
In ogni porto della regione-Brindisi, Taranto, Gallipoli, Otranto-è un incessante andirivieni di navi; vi funzionano fondachi veneziani, toscani, genovesi, russi, tedeschi e inglesi i cui rappresentanti acquistano partite di olio da inviare nei propri paesi.
Nei registri del notaro Cesare Pandolfo di Brindisi, ad esempio, sono elencati gli atti di versamento del dazio riscosso da due agenti veneziani; ebbene in soli dieci mesi del 1578 i due compatrioti acquistarono 211.263 stare di olio d’oliva provenienti dalle terre di Maglie, Salve, Murciano e Leuca pagando 21.126 ducati di tassa daziaria.
Sia pure con minore intensità rispetto alla Puglia, nelle restanti regioni-la Calabria, I’Abruzzo, la Campania e la Sicilia-sempre ad opera di frati o monaci e poi di feudatari, si provvide a coltivare l’olivo dapprima per l’autoconsumo e successivamente destinandolo all’esportazione.
Il commercio dell’olio d’oliva raggiunse una tale importanza nell’economia meridionale che nel 1559 il Vicerè spagnolo Parafran de Rivera dispose la costruzione di una strada che collegasse Napoli alla Puglia con biforcazioni per la Calabria e l’Abruzzo per consentire più rapidi trasporti di questa derrata.
A Spoltore, in Abruzzo, attorno al convento francescano, vi è un enorme e secolare oliveto impiantato nel 1488 mentre già nel Duecento in tutta la fascia costiera fino ai 500 metri di altitudine, v’erano coltivati ricchissimi oliveti.
In Calabria, a Taverna e Mesoraca- dove sono visibili e ancora funzionanti antichi frantoi-si estendono oliveti risalenti al Duecento. La Sicilia ha oliveti dappertutto e ad Erice pare siano stati i Fenici ad avviare la coltivazione dell’olivo.
In Campania, specie nel salernitano, furono i romani ad incentivarne la coltivazione e la diffusione mostrando una particolare predilezione per l’olio d’oliva campano.
Dal XVI secolo, le guerre, i continui mutamenti politici, il crollo dei sistemi economici, colpiscono sia la coltivazione degli oliveti, sia il commercio delI’olio. Si hanno cattivi raccolti, in particolare nell’Italia meridionale e, con la dominazione spagnola, un aumentato carico fiscale e nuovi contratti a termine, prima di tre anni, poi, dal 1670, di due.
Spesso gli oliveti sono abbandonati perché la resa non compensa le spese e il lavoro. L’albero, lui, resiste, ma solo perché la sua natura è praticamente indistruttibile.
La concorrenza sul mercato oleario diviene accanita. Venezia, dopo la perdita di Cipro, deve vedersela anche con i pirati che assaltano i suoi convogli e nello stesso tempo contrastare gli inglesi che intendano commerciare l’olio d’oliva senza l’intermediazione veneta. I commercianti veneziani riescono purtuttavia a migliorare l’organizzazione distributiva sia all’interno della Repubblica che verso i nuovi mercati esteri del Tirolo, della Baviera e della Germania utilizzando, tra l’altro. Ia navigazione fluviale.
L’olio d’oliva veneziano resta competitivo nel prezzo nonostante le periodiche penurie naturali del prodotto e gli aggravi fiscali.
Alcuni dati: i commercianti veneziani nel 1580 importano dieci milioni di libbre di olio d’oliva che aumentano a quindici milioni di libbre nel 1598.
Le cose vanno meglio in Toscana, dove l’amministrazione medicea favorisce la cessione ai Comuni di terreni collinari boscosi, con l’obbligo di darli in affitto a un prezzo minimo: a condizione che l’affittuario li trasformi piantandovi ulivi e vigneti.
Nascono anche grandi proprietà, vere e proprie aziende agricole chiamate Fattorie, che dispongono di loro frantoi. E le cose vanno meglio anche in Sardegna, dove sino alla fine del Medioevo esistevano pochi ulivi piantati dagli occupanti pisani, poi abbandonati e moltiplicatisi in piante selvatiche, a macchie. E un vice-re spagnolo, Giovanni Vivas, a lanciare l’olivicoltura nella parte nord-occidentale dell’isola: un decreto del 1624 ordina di innestare gli ulivi ridotti allo stato selvatico, che divengono di proprietà di chi li innesta. Il proprietario nei cui possedimenti Vi sono almeno cinquecento piante, deve allestire un frantoio. Vivas fa venire da Maiorca cinquanta maestri innestatori (innestini), a ognuno dei quali vengono affidati dieci allievi. Vi è da dire che in Spagna le tecniche di coltivazione e lavorazione erano state particolarmente affinate durante la dominazione araba: nel solo distretto della Siviglia musulmana funzionavano trentamila frantoi.
A partire dal ’700, I’avvio del mercato liberistico su scala nazionale e internazionale porta un risanamento economico, salgono i prezzi, e il profitto, si estendono le aree di coltivazione. Se ne vedono gli effetti, ad esempio nel litorale ionico calabrese dove l’impianto di oliveti è incoraggiato, nel 1783, da nuove leggi che li liberano da ogni precedente carico feudale, e li esentano da tasse per quarant’anni.
L’olio d’oliva italiano si diffonde in tutta Europa. In Francia, Inghilterra,Belgio, Germania, fino in Russia: I’imperatrice Caterina ne riceve un campionario dallo studioso Giovanni Presta, in un cofanetto di legno d’ulivo.
Per meglio servire questi nuovi ricchi mercati i commercianti veneziani costituiscono una specie di consorzio denominato “Negozio di Ponente”.
E nel ’700 che si inizia a distinguere i tipi di olio d’oliva; I’olio d’oliva pugliese ad esempio, era considerato buono quanto quello di produzione toscana mentre quello di Levante era da utilizzare per lavare le lane, lubrificare le prime macchine, per l’illuminazione.
Alla fine del XVIII secolo, I’Italia in molte sue regioni è coperta di olivi, che prendono in larga misura-in Toscana, ad esempio-il posto dei gelsi, e pur rimanendo meno diffusi della vite spesso si uniscono a questa in un unico terreno, come, in altri casi, con il grano.
Nel secolo XIX la tendenza positiva si accentua, si creano forme di specializzazione nella produzione dell’olio di oliva, ricercato come condimento di pregio . Una notificazione di Pio VII, del 1830, garantisce il premio di un paolo (compenso di una giornata lavorativa di un bracciante) per ogni ulivo piantato e curato sino a 18 mesi: dal 1830 al 1840 in Umbria vengono piantati 38.000 ulivi.
Nello stesso periodo, in Liguria gli uliveti, concentrati in grande maggioranza nella parte occidentale, occupano circa il 20% della superficie totale: nel 1848 il raccolto frutta 20 milioni di lire, il 32% del valore complessivo della produzione agricola ligure.